Intervista di Dante Cerati a Lorenza Zambon. Càpita che a un certo punto della propria vita si decida di cambiare vita, per cercare la felicità, per appartenenza, per maggiore fedeltà e intimità con se stessi. Càpita che quella scelta sia una scelta di vita, ma una scelta di vita legata a un luogo della terra, una specie di ritorno alla natura e al giardino segreto della nostra infanzia. Càpita che quella scelta ci salvi due volte, la prima dalla perdita di sé, la seconda volta dalla paura e dalla disperazione. Càpita che quella scelta sia la vita, anche quando la vita si sta indebolendo nella malattia. Il racconto di Pia Pera si muove in un presente continuo, chiude e riparte come gli anelli concentrici di un grosso albero, al cui centro si trova il giardino-orto che da anni coltiva e cura. Racconto sapienziale e filosofico, confessione-dialogo con il lettore, diario di bordo di una malattia accettata come si può accettare una tempesta che ci sorprende in mare aperto, lettura sussurrata che porta in superficie l’ombra che non abbiamo ancora attraversato. Il libro si apre su una poesia di Emily Dickinson, I haven’t told my garden yet, da cui è tratto lo splendido titolo. Il tema è il giardiniere e la morte, la scomparsa di chi ha ideato, pensato, accudito il giardino. Il suo venir meno come tradimento involontario, non colpevole, quando verrà il giorno in cui le sue cure non saranno più possibili e la natura tornerà a essere l’unica forza in campo. Mentre un pittore, uno scultore, un architetto, un poeta creano qualcosa che può vivere anche senza di loro, il giardino è opera effimera, transeunte, eppure… (Ponte alle Grazie)